"Si deve sempre rispetto alle religioni altrui.
Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre"

Editto XII 
del re indiano Ash
oka 
(III secolo a.C.)

 

Dialogo e incontro con l'altro:
la "via della pace" percorsa da una comunità monastica

di Matteo Nicolini-Zani
monaco di Bose


[Conferenza tenuta ad Assisi il 29 ottobre 2011, presso la Cittadella]

 

Introduzione

 

 

A due giorni dall'incontro di Assisi del 27 ottobre, in cui le religioni del mondo hanno detto ancora una volta insieme la loro volontà di proseguire il cammino fatto negli ultimi venticinque anni in quello spirito di reciproco rispetto, stima e fraternità che è stato iconicamente chiamato "spirito di Assisi", il nostro dialogo di oggi si offre come un'eco di quell'evento che ha mostrato il volto di una chiesa ancora desiderosa di "sporgersi" fuori dai propri confini per incontrare chi, su cammini diversi dello spirito, cerca di scrutare il mistero dell'uomo e di Dio e cerca di abitare questa terra nella pace e nella fraternità. Padre Jean-Marie Ploux, un acuto "teologo del dialogo", ha ben espresso questo dicendo:

 

Solo con il dialogo possiamo scoprire l'uomo e Dio. Dio non si svela all'uomo e l'uomo a Dio se non rischiando la parola. Forse si deve persino dire che con il dialogo non solo l'uomo ma anche Dio si svela a se stesso [...] Ai miei occhi una delle principali sfide della fede cristiana è pensare [...] che il dialogo di Dio con l'uomo, di cui Gesù è per i cristiani il luogo di interpretazione, è anche un dialogo interiore a Dio, se è vero che Gesù è la sua parola impegnata nella carne. Quindi, questo dialogo ha qualcosa a che vedere con l'essere stesso di Dio[1].

 

In questo senso "lo spirito di Assisi" riassume una dinamica spirituale che dovrebbe essere sempre propria della nostra fede cristiana: l'anelito a guardare oltre, a dilatare lo sguardo interiore al di là dell'orizzonte ristretto del già noto, per riscoprire un Dio che è sempre "più grande del nostro cuore" (1Gv 3,20) o, come professano instancabilmente i nostri fratelli musulmani, "più grande" in maniera assoluta, senza determinazioni comparative. Dio è sempre diverso, sempre altro da quello che crediamo di conoscere di lui[2], perché è un Dio tre volte "santo", perché è un Dio dei vivi e non dei morti!

 

 

 

Dialogo e incontro con l'altro come esperienza di rivelazione

 

 

Nel preparare queste note che vi propongo, sono andato a rileggere il "Decalogo di Assisi per la pace", adottato il 24 gennaio 2002 da coloro che avevano risposto all'appello di papa Giovanni Paolo II per radunarsi un'altra volta ad Assisi per pregare per la pace. Il punto del decalogo che vorrei fosse il canovaccio della nostra riflessione insieme è il quinto:

 

Ci impegniamo a dialogare con sincerità e pazienza, non considerando ciò che ci separa come muro insormontabile, ma, al contrario, riconoscendo che il confronto con la diversità degli altri può diventare un'occasione di maggiore comprensione reciproca[3].

 

Confronto e dialogo con la diversità come occasione di comprensione, e dunque di crescita, di arricchimento: questa la dinamica su cui ruoterà la nostra breve riflessione. Dinamica che fa della nostra esperienza cristiana un'incessante ricerca di esodo da sé, dal proprio mondo culturale e spirituale, per andare incontro all'altro, consapevoli che l'altro è sempre un'esperienza di rivelazione, un'occasione di andare più in profondità nella propria esperienza spirituale, come amava affermare Raimon Panikkar: "L'altro mi manifesta qualcosa che io ancora non so, perciò l'incontro con lui è rivelazione"[4].

Spiritualmente parlando, l'incontro con esperienze spirituali e religiose altre dalla nostra ci conduce a una rinnovata conversione della nostra fede cristiana. Ha espresso bene questo il patriarca ecumenico Bartolomeo I nella sua testimonianza alla giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo "Pellegrini della verità, pellegrini della pace" del 27 ottobre 2011:

 

Ogni dialogo autentico porta in sé i germi di una metamorfosi da realizzare. La natura di tale trasformazione costituisce una conversione che ci fa uscire dai nostri particolarismi per considerare l'altro come soggetto di relazione.

 

Teologicamente parlando, la profondità spirituale dell'altro, qualora "vera e santa", cioè autentica, mostra "un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini" (Nostra Aetate 1), come ci ha indicato con chiarezza il Vaticano II. Per usare altri termini, potremmo parlare di una fiduciosa esposizione al mondo spirituale dell'altro quale terreno fecondo per un approfondimento della propria esperienza di fede.

Mi è stato chiesto di fare questo breve, ma spero intenso, percorso con voi, nella prospettiva dell'esperienza monastica, cioè sulla base del vissuto della comunità monastica cui appartengo - la comunità di Bose - e, per forza di cose, della mia personale esperienza spirituale di monaco cristiano che vive quotidianamente la vita monastica come luogo dell'incontro e del dialogo, e poi che da qualche tempo è impegnato in quell'organismo che nel mondo monastico desidera tener viva la fiamma dell'esperienza spirituale del dialogo interreligioso, il DIM (Dialogo Interreligioso Monastico)[5].

 

 

 

La "via monastica" come "via della pace" tra diversi

 

 

Vorrei dunque evocare e ripercorrere brevemente con voi alcune dimensioni fondamentali della nostra vita monastica che rappresentano per noi "luoghi" privilegiati che permettono l'incontro dell'altro, la sua accoglienza, il dialogo con lui, e dunque la costruzione di una relazione umana di fiducia e di stima reciproca, dunque di pace. Sono, quelle che evocherò, dimensioni essenziali e fondanti la vita umana, e per questo le riflessioni su di esse possono essere degli stimoli per tutti, non solo per i monaci. Tuttavia la vita monastica ha scelto di viverli con più radicalità, e nel contempo vi ha riflettuto con più profondità, integrando conoscenza intellettuale, sapienza umana, pratica spirituale ed esperienza quotidiana. Per la nostra comunità monastica è il frutto - più o meno maturo - dell'esperienza di più di quarant'anni di vita comunitaria ed ecclesiale in cui abbiamo vissuto la fatica e la grazia, il prezzo e la ricchezza del dialogo con l'altro/Altro, a livello di relazioni fraterne interne alla comunità, di relazioni di comunione e di amicizia con gli ospiti, e di relazioni dialogiche e di servizio con i fratelli di altre chiese cristiane e di altre vie religiose.

 

 

1. "Stranierità"

 

La "stranierità" (xeniteía) è l'azione e la condizione attraverso le quali il monaco - ma prima di tutto il cristiano - "si fa straniero" rispetto a questo "mondo", e ciò evidentemente per ricercare un altro mondo e un'altra patria, di cui si sente parte, quella "celeste" (cf. Fil 3,20).

Fisicamente il monaco lascia la famiglia, la casa, il lavoro, per entrare in un'altra vita in cui "nulla anteporre all'amore di Cristo" (cf. RB 72). Spiritualmente il monaco lasciare il già noto, acconsente a perdere ciò che possiede per acquisire qualcos'altro, ma più in profondità, per essere in una condizione di costante apertura e disponibilità all'accoglienza del novum cui Gesù Cristo lo invita. La "stranierità" è per il monaco l'acconsentimento a vivere sempre da straniero, radicalizzando così la condizione di ogni cristiano, per cui "ogni terra straniera è patria, e ogni patria terra straniera"[6].

Questa "terra straniera" che il monaco abita è il luogo fecondo per il vero incontro e il vero dialogo. Spogliato di ciò che non è necessario per la traversata - ma forte di ciò che lo abita non come un possesso ma come un dono - il monaco vive nel deserto, ai margini... Il monaco è così pronto a quella traversata difficile che è la traversata del "deserto dell'alterità", per riprendere il titolo di un bellissimo libro sull'esperienza spirituale del dialogo interreligioso pubblicato in italiano proprio qui ad Assisi dalla Cittadella[7].

Su questa via alcuni monaci non si sono fatti stranieri al mondo soltanto con la loro professione monastica, ma hanno spinto la loro esperienza di stranierità addentrandosi nei territori della differenza culturale e spirituale lungo tutta la loro vita: penso alle grandi figure di Thomas Merton, Henri Le Saux, Bede Griffiths... Ma penso anche a chi, tra noi in comunità, ha affrontato la sfida di imparare lingue nuove, conoscere tradizioni spirituali cristiane diverse dalla propria per divenire strumento di comunione a servizio dell'unità, cioè di rappacificazione, tra le chiese. O anche a chi, tra i monaci contemporanei, sente l'appello ad abbeverarsi a fonti spirituali di tradizioni non cristiane e diventa così, in sé, luogo di unità e di pace interiore.

 

 

2.  Vita interiore e preghiera come luogo dell'incontro in profondità

 

Monaco è, secondo l'etimologia della parola, colui che è abitato dalla tensione all'unità, a divenire uno (mónos) con Dio e con i fratelli. Monaco è l'uomo che, abitato dal desiderio di Dio, cerca di divenire abitante di quello spazio in cui Dio dimora: la Bibbia lo chiama cuore, ed è il centro, la profondità dell'uomo, la sede di tutto ciò che lo fa essere uomo (intelletto, sentimenti, affetti). Il monaco cerca e adora Dio nel profondo del proprio cuore nella preghiera, che è dialogo con lui.

Ma nella profondità del cuore il monaco incontra e dialoga con coloro che vivono e attingono alla stessa Fonte interiore. La profondità del cuore è - come scriveva Henri Le Saux - "il solo luogo possibile per l'incontro"[8] e rende il monaco uomo dialogico per eccellenza. Al monaco maturo non interessa più la superficie ma cerca la profondità: qui sa che può incontrare davvero Dio e i fratelli, il cui volto e le cui parole, le cui gioie e le cui sofferenze sono divenute così intime da poter dire, alla stregua di Paolo, "non sono più io che vivo, ma Cristo e i fratelli vivono in me" (cf. Gal 2,20).

L'altro abita il mio cuore... Questa la nostra esperienza di monaci! È un'esperienza straordinaria: io arrivo ad incontrare veramente l'altro, solo se lo incontro - anzi se l'ho già incontrato, cioè gli ho già fatto spazio prima di averlo incontrato fisicamente - nel profondo del mio cuore. Questo l'unico spazio del vero ascolto e della vera accoglienza dell'altro, di cui parleremo subito, avvicinandoci con una citazione che fa da cerniera:

 

Ospitalità è fare spazio all'altro, creare spazio all'altro dentro di te, mediante l'ascolto. Perché la dimora in cui egli sogna di essere accolto è certamente anche la tua casa di mura, ma è anche la casa, la dimora del tuo cuore. L'altro attende di essere ospitato in te[9].

 

 

3. Ascolto e accoglienza dell'altro/Altro

 

Le dimensioni dell'ascolto e dell'accoglienza sono dimensioni in cui il monaco - come ogni altro uomo ma con più intensità ed assiduità - si esercita quotidianamente nella sua prassi di vita monastica. Il monaco è l'uomo scavato dall'ascolto. La Regola di Benedetto, non a caso, si apre con le parole: "Ascolta, o figlio, apri l'orecchio del tuo cuore" (RB Prol.). Ascolto della parola di Dio che parla nelle Scritture, nel proprio cuore, nei fratelli e nelle sorelle. Ascolto, cioè, di una parola altra dalla propria... Ascolto, rispetto e accoglienza dei linguaggi altri dal proprio...  anche i linguaggi di fede, di devozione, di tradizione ecclesiale diversa: questo il cuore dell'ecumenismo "spirituale" vissuto nelle comunità ecumeniche come la nostra.

L'ascolto e l'accoglienza divengono così due dimensioni essenziali per il dialogo spirituale anche tra cercatori spirituali che seguono diverse vie religiose. Come scriveva lo stesso Panikkar: "Il terreno del dialogo è ... quello configurato dall'ascolto reciproco e dall'accoglienza in sé dell'esperienza dell'altro"[10].

Per far questo il dialogo necessita soprattutto di silenzio, di spazio concesso, donato all'altro perché possa "dirsi"... Significa rinunciare a occupare tutto lo spazio, anche quello spirituale, come scrive Enzo Bianchi:

 

Ascoltare è far tacere se stessi per dare peso, fiducia alla parola dell'altro. L'altro non lo si ascolta mai invano, ma occorre lasciarsi incontrare da lui: ascoltare è ospitare l'altro dentro di noi, è accoglierlo, è comprenderlo, è fargli spazio in noi[11].

 

Ascoltare significa, infine e più profondamente, accettare di rischiare se stessi in un dialogo che ci altera... Occorre cioè, come dice bene Ploux, "una sorta di conversione all'altro per entrare in dialogo con lui"[12].

 

 

4. Comunione nella diversità

 

La pace nella comunità monastica - come in ogni altra comunità umana, a tutti i livelli - si costruisce non su un'uniformità indistinta, bensì sulla comunione di diversi. È la comunione costruita non soltanto su una convergenza umana di valori e di ideali comuni, bensì è un'opera dello Spirito, che anima ogni incontro autentico e ogni dialogo riuscito: lo Spirito - come ha scritto frère Christian de Chergé nel suo testamento spirituale - "la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione [...] giocando con le differenze"[13]. Riformulazione spirituale, questa, della verità antropologica fondamentale che Michel de Certeau ha espresso sinteticamente con la formula: "La non-identità è la modalità su cui si elabora la comunione"[14]. A livello teologico ed ecclesiologico, Paolo ha elaborato lo stesso concetto parlando della diversità dei doni e dei carismi all'interno della chiesa vista come corpo mistico di Cristo nella sua unità organica: molte membra diverse, ben articolate a formare un corpo unico (cf. ad esempio Rm 12,4-6; 1Cor 12,7; Ef 4,11-13). La chiesa non è una setta di adepti tutti uguali, ma è una comunità di persone libere che restano diverse ma che insieme cercano l'utilità comune. Come cristiani noi crediamo a questo "modello" di comunione nella differenza come proponibile al mondo intero, modello in cui la diversità - anche religiosa - è non solo tollerata ma apprezzata in vista di un bene comune, altro  nome della pace...

In questa concezione e prassi di comunione, dunque, il dialogo, la parola scambiata, il confronto saranno sentiti sempre come una fonte di arricchimento, "un'occasione di maggiore comprensione reciproca", l'unica prassi possibile per stabilire relazioni di pace e di armonia. E il dialogo sarà cercato, desiderato, come mezzo per costruire una casa comune ospitale per tutte le genti...

Questo è quello che abbiamo vissuto nella nostra comunità monastica in questi anni - in un cammino fatto di successi e di insuccessi, di fedeltà e di smentite - cercando di realizzare questa comunione nella diversità, facendo spazio e coltivando le diversità nella comunità (a vari livelli, tra cui anche quello della diversità confessionale), e accogliendo la diversità delle persone che ci visitano come ospiti... E siamo giunti all'ultimo tema: l'ospitalità.

 

 

5. Ospitalità

 

Permettetemi di citare un detto dei padri del deserto, i primi monaci che vissero nel deserto egiziano nel iv secolo:

 

Un fratello si recò in visita da un anziano e, congedandosi da lui, gli disse: "Perdonami, abba, perché ti ho distratto dalla tua regola". E quello rispose: "La mia regola è di darti ristoro e di congedarti in pace"[15].

 

Qui è detta in sintesi la centralità, anzi l'intima connessione tra vita monastica e ospitalità[16]. Il monaco e la comunità monastica sono il luogo in cui l'altro, colui che sta fuori e si accosta al monastero, trova uno spazio accogliente in cui ristorarsi e ritrovare la pace. Il monastero vuole essere quest'oasi di ristoro e di pace per l'ospite che arriva e che può ripartire percorrendo nuovamente una via di pacificazione interiore e, dunque, di ritrovata pace con gli altri.

Il modello di quest'ospitalità è biblico: il riferimento "antico" è Abramo, che offrendo ospitalità ai tre viandanti stranieri a Mamre accolse il Signore stesso (cf. Gen 18,1-16; Eb 13,2); il riferimento "nuovo" è Cristo stesso, come ben afferma la Regola di Benedetto (RB 53):

 

Tutti gli ospiti che arrivano siano accolti come Cristo, perché egli stesso dirà: "Ero forestiero e mi avete accolto" (Mt 25,35). A tutti si renda l'onore dovuto, "soprattutto ai fratelli nella fede" (Gal 6,10) e ai pellegrini. Quando dunque viene annunciato un ospite, gli vadano incontro il superiore e i fratelli con tutte le premure richieste dalla carità ... Si adori in essi [gli ospiti] il Cristo, perché è lui che viene accolto ... [I fratelli] dicano questo versetto: "Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, in mezzo al tuo tempio" (Sal 47,10).

 

L'ospitalità preserva il monastero dal divenire autoreferenziale, autosufficiente, ripiegato su di sé. L'ospitalità rende il monastero un luogo di incontro di cercatori di Dio: il monaco e l'ospite; ne fa una tappa nel cammino comune verso il regno, in cui il monaco si fa vicino a tanti compagni di strada, accettando di condividere il tratto di strada che essi vorranno, senza trattenere nessuno.

Questo è lo stile dell'ospitalità che in monastero cerchiamo di praticare e che può divenire un "modello" per l'ospitalità come forma fondamentale del dialogo, anche quello ecumenico e interreligioso. Praticando l'ospitalità, l'estraneo da potenziale nemico (hostis) diventa ospite (hospes), e dunque potenziale amico e compagno di strada: dunque l'ospitalità è un luogo di conversione reciproca, di "rivoluzionaria" trasformazione interiore, che ci conduce tutti - ospitato e ospitante - su nuovi cammini di pace e riconciliazione.

Questo ciò che, come comunità monastica di Bose, viviamo da alcuni decenni ormai di pratica di ospitalità ecumenica nei confronti di fratelli e sorelle di altre chiese cristiane. L'ospitalità nei loro confronti è un mutuo arricchimento attraverso la condivisione dei rispettivi tesori spirituali. L'ospitalità nei loro confronti fa della comunità monastica un luogo profetico, in cui si realizza - come un segno, e dunque in maniera imperfetta - quell'unità della chiesa voluta dal Signore.

Questo è anche ciò che, come comunità monastica italiana, abbiamo iniziato  a vivere da alcuni anni, attraverso una pratica di ospitalità interreligiosa. L'esperienza di scambi monastici con monaci di altre tradizioni religiose ci sta dischiudendo nuovi sentieri di comunione spirituale prima imprevisti...

 

Se l'ospite è sempre, in un modo o nell'altro, un inviato di Dio, lo è ugualmente per la sua esperienza religiosa ... L'incontro con un rappresentante di un'altra religione in un ambiente spirituale può stimolare la nostra stessa fede. Sì, il nostro Dio ha qualche cosa da dirci per mezzo di uomini e donne di altre religioni[17].

 

 

 

Conclusione

 

 

La "via della pace" che il dialogo apre è, in conclusione, una bella ma ardua avventura. Ci chiede di vincere la paura della diversità con la fiducia e l'amore, l'unico vero antidoto alla paura: come dice Giovanni, infatti, "l'amore scaccia il timore" (1Gv 4,18). La "via della pace" ci stimola a vivere l'incontro e il dialogo con i nostri fratelli che percorrono altri sentieri religiosi come occasione di verità e di discesa in profondità nella nostra vita di fede, nella ricerca di un'intelligenza rinnovata delle nostre ragioni di vita. L'altro credente sonda quell'aspetto della nostra fede che noi misconosciamo, fa nascere emulazione, contribuisce a far emergere delle attese, ci permette di formulare ciò che non eravamo ancora riusciti a esprimere. L'altro credente ci interroga mettendo in discussione non la nostra fede, ma l'esperienza che ne abbiamo fatto fino ad oggi, come esprime acutamente Michel de Certeau:

 

A causa della pressione degli incontri e sotto il peso della domanda che il Dio-uomo rivolge al fedele attraverso i suoi fratelli [non cristiani], esplode l'"eresia" latente in ogni esperienza religiosa particolare, cioè le scelte, le esclusioni e le ignoranze che la sua stessa realtà impone[18].

 

Il dialogo diviene così un appello a spezzare le paure e le chiusure identitarie che pervertono la verità cristiana, una verità sempre aperta, dialogica, ospitale. Un invito a lasciarci interpellare, destabilizzare, arricchire dall'esistenza dell'altro, con uno sguardo fiducioso sul futuro:

 

Rivolti verso l'avvenire, attendiamo gli ampliamenti prodigiosi del nostro sguardo sull'uomo e su Gesù che nasceranno dall'interazione tra le culture cristiane attuali e le questioni poste dagli uomini delle altre tradizioni dell'umanità[19].

 

Solo grazie al dialogo il confine tra me e l'altro - l'altro uomo, l'altro cristiano, l'altro credente - da luogo di conflitti e di malintesi può diventare luogo di pacificazione e di incontro. È nel dialogo, in quel luogo privilegiato in cui ciascuno resta se stesso e nel contempo accetta il rischio di diventare "altro", che l'incontro diventa rivelazione di un dono che viene da altrove e scoperta di un punto di vista inedito della propria esperienza, anche della propria esperienza di fede.

 

 

Fr. Matteo Nicolini-Zani



[1] J.-M. Ploux, Il dialogo cambia la fede?, Qiqajon-Comunità di Bose, Magnano 2011, pp. 5-6.

[2] Cf. J.-M. Ploux, Dio non è quel che credi, Qiqajon-Comunità di Bose, Magnano 2010.

[3] Giovanni Paolo II, Decalogo di Assisi per la pace, in Dialogo interreligioso nell'insegnamento della chiesa cattolica dal concilio Vaticano II a Giovanni Paolo II (1963-2005), a cura di F. Gioia, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 20062, pp. 1214-1215, nr. 1230*.

[4] R. Panikkar, L'altro come esperienza di rivelazione, L'altrapagina, Città di Castello 2008, p. 48.

[5] Si vedano i siti internet: http://www.dimmid.org e http://www.dimitalia.com.

[6] A Diogneto 5,5.

[7] F. Blée, Il deserto dell'alterità. Un'esperienza spirituale del dialogo interreligioso, Cittadella, Assisi 2006

[8] H. Le Saux, The Church in India, The Christian Literature Society, Madras 1969, p. 61.

[9] A. Casati, Incontri con Gesù, Qiqajon-Comunità di Bose, Magnano 2010, p. 107.

[10] R. Panikkar, L'altro come esperienza di rivelazione, p. 24.

[11] E. Bianchi, Ero straniero e mi avete ospitato, Rizzoli, Milano 2006, p. 98.

[12]  J.-M. Ploux, Il dialogo cambia la fede?, p. 155.

[13] Ch. de Chergé e gli altri monaci di Tibhirine, Più forti dell'odio, Qiqajon-Comunità di Bose, Magnano 2006, p. 230. I corsivi sono miei.

[14] M. de Certeau, Lo straniero o l'unione nella differenza, Vita e Pensiero, Milano 2010, p. 19.

[15] Detti dei padri, Serie anonima N 283.

[16] Cf. L. Manicardi, L. d'Ayala Valva, L'ospitalità nel monachesimo, Qiqajon-Comunità di Bose, Magnano 2010 (Temi di vita religiosa Z).

[17] P.-F. de Béthune, Per mezzo della fede e dell'ospitalità, Benedettina, Parma 1998, p. 14. Si veda anche Id., L'hospitalité sacrée entre les religions, Albin Michel, Paris 2007.

[18] M. de Certeau, Lo straniero o l'unione nella differenza, p. 85.

[19] Conférence épiscopale régionale de l'Afrique du Nord, "Chrétiens au Maghreb. Le sens de nos rencontres", in La documentation catholique 1775 (1979), pp. 1032-1044, qui p. 1036. I corsivi sono miei.

 

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