Deontologia del dialogo
di Enzo Bianchi priore di Bose
Molti cristiani in questa ultima parte del xx secolo si sentono impegnati al dialogo con le altre realtà religiose presenti su tutta la terra e anche con gli uomini non religiosi ma sempre testimoni di una speranza. Ecumenismo tra le chiese cristiane e tra queste e Israele, loro radice santa (da cui provengono attraverso Gesù, un ebreo che in un certo senso unisce cristiani ed ebrei ma anche li distingue irrimediabilmente) e dialogo tra cristiani e le altre religioni sono ormai una convinzione, un impegno e una prassi assunte definitivamente.
La parola "dialogo", apparsa nella stagione conciliare, è diventata quotidiana e nessuno vorrebbe smentirla o contraddirla
E tuttavia sovente, nonostante le dichiarazioni di volontà di dialogo, si pronunciano parole che l'interlocutore sente come offensive, approssimative, a volte addirittura errate o svianti. È successo anche recentemente: alcuni monaci buddhisti si sono sentiti offesi dalle parole che il papa nel suo libro ha dedicato alla loro "via religiosa" [1]. Ma ogni giorno si registrano conflitti simili, a tal punto che occorre confessare la nostra impreparazione al dialogo perché si è appena usciti dall'età della pietra, essendo vissuti troppo a lungo di conflitto o, al massimo, di coesistenza pacifica, nell'ignoranza e, a volte, nel disprezzo l'un dell'altro
Vorrei qui ricordare che il dialogo non solo non è facile, ma costituisce un autentico percorso ascetico: esige un atteggiamento preciso, frutto di un paziente e faticoso lavorio e per esso si rivelano insufficienti l'entusiasmo del cuore e la spontaneità. Occorre infatti tener presente e mettere in pratica una vera e propria deontologia del dialogo, altrimenti si rischia di alimentare unicamente una retorica del dialogo. Ecco allora alcune regole:
1. Innanzitutto occorre mettersi in ascolto dell'altro, accettandone l'alterità e la diversità e verificandone la disponibilità al dialogo.
2. Lasciare che sia l'altro a definirsi e accettare questa sua autolettura, questa consegna che egli fa di se stesso affinché noi lo possiamo conoscere in modo autentico. Non dobbiamo presumere di saper descrivere il volto dell'altro, perché in questo caso è facile, anche senza averne l'intenzione, dargli un volto riduttivo o falso ed esprimere un giudizio derivato dalle nostre convinzioni e dai nostri parametri culturali.
3. Definire se stessi a partire dalla propria identità culturale e religiosa. Questo è particolarmente importante per noi cattolici che - sovente sotto il pretesto di universalità e di sympatheia - tendiamo all'"et-et" piuttosto che all'"aut-aut", siamo tentati di non collocarci mai: in questo caso non ci sarà dialogo ma solo un indifferentismo o un relativismo che si manifesteranno in consensi irreali, specchietti per allodole
Senza sentire le proprie radici non si è autentici interlocutori: essere fedeli alla propria confessione di fede ed esserne oggettivamente portavoce è condizione del dialogo autentico.
4. Ammettere un'uguaglianza tra partner nel percorrere, nel vivere il dialogo. Pur nella convinzione che la sua è l'unica vera fede, il cristiano non deve temere la difficoltà che risente, ma deve piuttosto ricordare che l'altro costituisce la rivelazione di ciò che a lui non è stato dato, la manifestazione di un dono che viene dall'alto, e che la storia - spazio dell'incontro e del dialogo - è luogo obbligato per la conoscenza del dono di Dio. Né inclusione, né esclusione della verità dell'altro, ma accettazione del confronto.
5. Il dialogo richiede una povertà che esclude ogni autosufficienza e che afferma una kenosis immanente di ogni credo. Pure di questo noi cristiani non abbiamo paura perché sappiamo che lo Spirito santo offre agli uomini tutti - in un modo che solo Dio conosce - la possibilità di essere associati al mistero pasquale. Infine chi vuole praticare il dialogo fuori dal suo spazio con altre espressioni religiose o culturali non può dimenticare che la sua retta intenzione va anche mostrata con la capacità di dialogo e di comunicazione nei confronti di quelli che appartengono alla sua stessa tradizione religiosa o chiesa. Chi pratica il "dialogo presbite", quello cioè con chi è lontano, e non sa condurre il dialogo con chi gli è vicino, non è certo credibile.
Sì, il dialogo percorre questa traiettoria: inizia quando due uomini, incontrandosi, si inchinano l'uno davanti all'altro e sono disposti un giorno a lavare i piedi l'uno all'altro
Enzo Bianchi priore di Bose
[1] Cf. Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, pp. 93-99.
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