Implicazioni del dialogo interreligioso per la spiritualità della vita consacrata
di Notker Wolf, osb
1. Già negli anni '60 i responsabili benedettini, cistercensi e trappisti hanno sentito che il dialogo interreligioso sarebbe stato in futuro una caratteristica essenziale della chiesa, particolarmente tra i monaci.
Sin dai suoi inizi, l'AIM, un'organizzazione costituita per facilitare l'inserimento della vita monastica nelle chiese giovani e conosciuta a quell'epoca come Aide à l'implantation monastique, si trovò implicata in contatti con le altre religioni. Particolarmente il buddhismo e l'induismo, sia come modello che come sfida, sembravano in grado di offrire molto per il progetto di impianto della vita monastica nelle culture asiatiche.
Quale forma avrebbero dovuto prendere le fondazione in India, nello Sri Lanka, in Thailandia e in altri paesi? Avrebbero dovuto essere, devono essere degli ashram benedettini oppure dei monasteri benedettini che mantengono la dimensione comunitaria ovvero cenobitica come un elemento sia tradizionale che specificamente ecclesiale? Ricordo qui dei pionieri come Bede Griffiths e Thomas Merton: per loro, il dialogo significava aprire se stessi e penetrare nelle mentalità e culture dell'Estremo Oriente. E in esse questi pionieri seppero pure scoprire impulsi notevoli per la vita monastica.
2. Il dialogo interreligioso monastico giunse a una nuova svolta e ricevette un nuovo slancio nel 1979, quando monaci buddhisti zen e alcuni laici impegnati del Giappone vennero per la prima volta in Europa per uno scambio spirituale. Essi desideravano studiare il cristianesimo e secondo il loro modo di vedere la religione viene vissuta più intensamente appunto nei monasteri. (ovviamente, nel cristianesimo la vita monastica è soltanto una forma tra molte altre per vivere il vangelo).
La motivazione dei nostri ospiti però ha suscitato in noi qualche sorpresa, per non dire imbarazzo. I giapponesi volevano scoprire le radici dello sviluppo scientifico e tecnico dell'Occidente ed essi erano convinti che tali radici dovessero essere ricercate nel cristianesimo. In quel periodo, i giapponesi avevano messo in programma uno scambio a più ampio raggio, includendovi, per esempio, le università. Ma in quella circostanza, gli scambi più fruttuosi e di più duraturo successo furono quelli che ebbero luogo nei monasteri.
Nel 1983 un gruppo di monaci occidentali andò in Giappone e approfondì la conoscenza del monachesimo locale, condividendo la vita nei monasteri. Da allora si sono sviluppati scambi regolari che si sono protratti fino ai nostri giorni e tra i monaci e i monasteri sono stati avviati molti rapporti di amicizia.
I benedettini americani hanno sviluppato contatti analoghi con i monasteri tibetani, anche se questi scambi non hanno avuto la stessa forma intensiva di quelli avviati tra i giapponesi e gli europei. Nel frattempo sono cresciuti anche scambi con realtà monastiche indiane e coreane.
A tutti questi contatti hanno sempre partecipato anche monache e suore.
3. Sin dall'inizio abbiamo avuto dei rapporti eccellenti con i monaci giapponesi. Loro mostravano un grande rispetto per la nostra vita e perciò anche noi eravamo portati e sollecitati a riconoscere la serietà della loro vita. Allo stesso modo in cui noi abbiamo la recita dei salmi, loro hanno dei tempi stabiliti per la recita dei sutra. Essi amano il silenzio e la loro prassi della meditazione è persino più rigorosa della nostra. Proprio come noi, anch'essi trascorrono la loro vita in clausura. Anzi, essi dormono in un dormitorio comune e mangiano insieme.
I giapponesi si resero conto ben presto che il nostro stile di vita è meno rigoroso del loro, ma d'altra parte essi notarono pure ben presto che noi trascorriamo tutta la vita in monastero, mentre loro passano soltanto alcuni mesi o anni come monaci quando sono ancora giovani. Per noi benedettini la discretio, ossia il rispetto delle circostanze locali, della personalità individuale, della fragilità degli anziani, occupa un posto davvero speciale.
Ma abbiamo pure scoperto molti punti comuni, e la loro vita ascetica e la loro insistenza su certe forme e certi riti ci hanno ricordato un bel po' di riti e di usanze nostre mezzo dimenticati. Tutto sommato, erano e sono esperienze di grande valore e un vero arricchimento. Persone estranee ogni tanto esprimono il timore che noi stiamo diventando mezzo buddhisti. I monaci zen però sono molto espliciti nel dichiarare che essi hanno intenzione di incontrare dei cristiani impegnati e non degli pseudo-buddhisti.
4. La base concreta sulla quale avvennero questi incontri fu la nostra tradizione di ospitalità. Nella sua Regola, san Benedetto dedica all'ospitalità un lungo capitolo, in cui ci esorta a prestare attenzione soprattutto a quelli che sono alla ricerca di una realtà più profonda e ai pellegrini. Una comunità benedettina è una famiglia e perciò gli ospiti sono bene accolti in questa famiglia. Essi possono partecipare alla nostra preghiera, mangiare con noi e collaborare al nostro lavoro manuale, benché siano riservate agli ospiti talune zone particolari del monastero così che la vita dei monaci non sia disturbata in modo inopportuno. Se i visitatori sono monaci, essi possono essere integrati più facilmente nella vita comunitaria e perciò possono condividere più pienamente tutta la nostra vita quotidiana. I nostri ospiti zen lo hanno fatto in modo esemplare, e noi viceversa, siamo stati accolti pienamente nei loro monasteri. Essi hanno potuto riconoscere che, a causa della nostra professione monastica, noi siamo monaci proprio come loro.
5. Attraverso tali incontri ci siamo avvicinati più strettamente anche dal punto di vista umano. All'inizio semplicemente abbiamo condiviso gli uni la vita degli altri. Non c'era un dialogo intellettuale, ma piuttosto uno scambio esistenziale. Abbiamo imparato a riconoscerci e apprezzarci a vicenda come monaci e come persone.
Benché io consideri importante lo scambio intellettuale, credo che prima di tutto sia necessario creare una reciproca fiducia umana. Dobbiamo riuscire a conoscerci e a stimarci gli uni gli altri senza preconcetti. Ciò mi sembra particolarmente importante per quanto riguarda le convinzioni religiose, perché è proprio lì che si possono innalzare facilmente e velocemente delle barriere ideologiche. Ed è soprattutto attraverso la nostra vita, attraverso il nostro modo di vivere che viene espressa la fede che ci sostiene.
Dobbiamo imparare a stare in disparte, consentendo all'altro di essere se stesso. Questo atteggiamento nel dialogo si applica a entrambi i partners. Ciò ci rende capaci di cominciare a comprendere perché l'altro sia convinto delle sue credenze. La questione primaria in questo caso non è chi abbia ragione, chi possieda la verità, ma prima di tutto il rispetto delle convinzioni e della vita dell'altro.
Questo non diminuisce neppure per un istante la propria fede. È una forma di tolleranza spirituale che non ha niente a che fare con l'indifferentismo. Prende sul serio l'altro (o l'altra) e lo/la stima come persona e come credente. Attraverso questo modo di fare, per l'appunto, mi è stato e mi viene specificamente richiesto da buddhisti e da shintoisti di parlare di Gesù Cristo e del suo messaggio.
6. Tale atteggiamento di dialogo può improntare il nostro comportamento verso qualsiasi persona. Il fondamento per una vera convivenza umana e una nuova base per poter convivere insieme consiste nell'arte di vedere l'altro come una immagine di Dio creatore nella sua dignità propria e nel suo diritto di non essere abusato come un semplice oggetto. Si deve dire che questo diminuisca o getti un'ombra sull'impegno missionario cristiano? Per niente: però, non sono più io che opero, ma piuttosto io preparo le vie al Signore perché lui operi nella maniera che piace a lui.
Questa forma di kenosis toglie qualsiasi tentazione di controllare l'altro e di coltivare l'impressione di sapere già tutto. Nello stesso modo con cui Gesù non voleva imporre se stesso, così anche noi dovremmo astenerci dal farlo. Quando sono riuscito e giungo a stimare un maestro buddhista, mi vengono in mente le parole di Gesù: "Veramente, non ho trovato una fede tale nel mio popolo".
Naturalmente noi vediamo anche le debolezze dell'altro, ma pure loro vedono le nostre. Ciò ci rende più realistici e più liberi per vederci e accettarci come siamo nella realtà. Dobbiamo fare i conti con la fragilità umana. Ancor una volta vorrei sottolineare che questo non implica un indebolimento del messaggio cristiano. Piuttosto, questo messaggio diventa, se non altro, più trasparente, ma senza alcuna arroganza. Anche l'altro si sente e viene preso sul serio.
L'atteggiamento principale di un monaco non consiste nel sapere, nell'insegnare, ma prima di tutto nell'ascoltare. Le prime parole della Regola di san Benedetto suonano: "Ascolta, figlio mio, le parole del maestro...". E non dovrebbe essere soltanto la virtù dei monaci. Il grande teologo Karl Rahner ha caratterizzato il cristiano come "ascoltatore della parola". I monaci dovrebbero esserlo per eccellenza. Credo che con questo atteggiamento possiamo aprire le porte, le nostre come quelle degli altri.
7. Un atteggiamento di questo genere mi sembra particolarmente importante nella situazione religiosa pluralistica nella quale ci troviamo nei paesi di tradizione cristiana. Per questo motivo, molte comunità monastiche mantengono contatti regolari con altri gruppi religiosi dell'ambiente nel quale vivono. Il dialogo oggi si fa dappertutto.
Ciò comporta talvolta un processo laborioso di apprendimento, però significa rendersi conto seriamente della situazione reale. Talvolta è persino più difficile per le chiese giovani lasciarsi coinvolgere in questo processo di dialogo con le altre religioni. Queste chiese sono ancora alla ricerca della loro identità. Ma anche per noi, una parte di questo processo di apprendimento consiste nel renderci conto della nostra propria identità in questo nuovo ambiente. Soltanto partners convinti sono capaci di dialogo.
8. Quest'anno il DIM (Dialogo interreligioso monastico), organizzato in gruppi regionali, celebra il suo 25° anniversario (1978–2003). Questa organizzazione ha iniziato e promosso il dialogo con monaci di altre religioni. Il dialogo di questo tipo ha delle peculiari qualità monastiche, che hanno anche i propri limiti.
Dobbiamo estendere questi scambi ad altre religioni come l'ebraismo e l'islam. I monaci trappisti hanno pagato con la vita la loro presenza in Algeria. Però non sono stati soltanto loro a essere uccisi dai fanatici religiosi: anche molti sceicchi musulmani della zona sono stati assassinati perché agli occhi dei fondamentalisti davano l'impressione di essere troppo lassisti. In questo modo, i monaci cristiani hanno condiviso la sorte di alcuni fedeli musulmani.
L'unica cosa che potrà avvicinarci di più gli uni agli altri, potrà essere lo sforzo in stancabile non solo di parlarci gli uni gli altri, ma anche di condividere le gioie e le sofferenze della vita. Ogni istituto religioso ha il proprio carisma. Sono convinto che ciascuno di questi istituti, se si lascia ispirare dalla spiritualità del dialogo, potrà dare un proprio contributo al cammino verso la coesistenza delle religioni e delle culture. Noi monaci siamo soltanto una piccola pietruzza in questo mosaico.
Notker Wolf, osb
|